L’epidemia da Covid19 ha evidenziato una serie di fattori che fino ad ora erano rimasti in ombra come, ad esempio, l’assoggettamento delle scelte politiche ai dettami economici. Non abbiamo dimenticato le pressioni di Confindustria Lombardia per evitare che Alzano e la Val Seriana diventassero Zona rossa; una mancata decisione che influì non poco sull’esponenziale numero di contagi, e di morti, subiti dalla città di Bergamo. In quei terribili giorni nei quali non vi era più posto per le bare nei cimiteri qualcuno arrivo ad appendere, di fronte alla sede di Confindustria di Bergamo, uno striscione con la scritta “Padroni assassini”.
Il presidente di Confindustria Verona, Michele Bauli, allo stesso modo, mentre si avvicinava l’inevitabile scelta di attuare il lockdown affermava, come riportato dalle pagine dei giornali cittadini, che “la produzione non si può fermare. Giù le mani dalle aziende!”.
Le pressioni esercitate da Confindustria nazionale furono fortissime e nel momento in cui si decideva la chiusura totale, l’associazione degli industriali, assieme a governo e sindacati confederali, firmava un accordo che, in deroga ai famosi codici Ateco, permetteva alle attività produttive di rimanere aperte compilando una semplice autocertificazione da sottoporre ai Prefetti e che non prevedeva alcun previo controllo.
Tutto questo ha fatto sì che, secondo i dati Inail di una settimana fa, come dichiarato dal ministro Boccia al Corriere della Sera, in Italia sono ancora 300 i contagi, e dieci i decessi, che avvengono a causa della riapertura delle aziende.
Chi si accollerà questa responsabilità? Siamo davvero disponibili a pagare questo prezzo? Sono state davvero scelte ineluttabili quelle prese dal governo Conte o forse, garantendo un reddito reale e non solo scritto sulla carta, ai lavoratori e alle lavoratrici ed un sostegno alle imprese, come avvenuto in altri paesi, sarebbe stato possibile preparare una fase due meno caotica e più sicura?
Queste domande chiamano direttamente in causa il governo italiano, che nella fase due sta dando l’impressione di barcollare e di cedere terreno anche alle pressioni delle Regioni, facilitando quella sorta di “ognuno per sé” che, al di là delle centinaia di pagine di decreti e linee guida, sta sotto gli occhi di tutti.
Una delle richieste che da sempre gli industriali pongono ai governi di ogni colore è la soppressione dell’Irap, una tassa in carico alle aziende e agli enti pubblici.
Nella situazione attuale, nella quale effettivamente le industrie arrancano, tale richiesta non poteva che assumere toni perentori. Il neopresidente di Confindustria Carlo Bonomi ha infatti richiesto a gran voce l’abolizione, o almeno il taglio, delle aliquote di quella che ha definito come “la tassa più odiata dagli italiani”.
Queste parole ci incutono un senso di fastidio; lo stesso fastidio che proviamo ogni volta che gli industriali provano a veicolare l’idea che, in fondo, i loro interessi e i loro problemi collimano esattamente con gli interessi e i problemi del resto della popolazione. E’ la retorica della “grande famiglia” che dovrebbe, secondo loro, accomunare nelle stesse rivendicazioni imprenditori e lavoratori. Una retorica che, almeno per un momento, pare essersi incrinata nel perìodo che stiamo vivendo.
Forse, se tutti gli italiani sapessero che la tassa in questione, l’irap, è utilizzata per finanziare il fondo per la sanità, quella retorica si incrinerebbe ulteriormente!
Il governo, da parte sua, non ha esitato ad accontentare Confindustria, inserendo nel Decreto-legge denominato “Rilancio” un taglio dell’Irap per 4 miliardi di euro.
Allo stesso tempo, e sempre all’interno dello stesso Decreto, ha anche previsto un fondo per la sanità pari a 3 miliardi e 250 milioni di euro, magnificando la scelta adottata come un evento unico nella storia recente della Repubblica. Lo stesso ministro della salute Speranza ha definito la quantità dei finanziamenti “senza precedenti”. I denari stanziati dovrebbero essere così ripartiti:
- il finanziamento della medicina territoriale
- l’assunzione di 9.600 infermieri
- la creazione di 4200 borse di studio
A prima vista le cose sembrerebbero davvero così e parrebbe che il governo Conte abbia trovato il giusto equilibrio per rispondere sia alle esigenze degli industriali che a quelle sociali, e in particolare alle carenze sanitarie messe in luce dalla pandemia.
Se però proviamo ad addentrarci un po’ di più nei dettagli scopriamo che non è tutto oro quel che luccica.
Innanzitutto dobbiamo fare una premessa. Le risorse stanziate per la sanità non sono aggiuntive ma sostitutive, e cioè i soldi allocati non vanno ad aggiungersi a quelli che sarebbero derivati dal gettito Irap non incassato ma li sostituiscono.
Un altro dato imprescindibile è quello che abbiamo trovato sulla pagina della Camera dei Deputati e che fissa la percentuale esatta che va prelevata dall’intero ammontare della tassa Irap e devoluta al fondo sanitario. Questa percentuale è pari al 90%.
Il calcolo è presto fatto e risulta che il 90% dei 4 miliardi di Irap tagliata, che avrebbe dovuto quindi rimpinguare le casse della sanità in situazione normale, sarebbe stata pari a 3 miliardi e 600 milioni.
Il raffronto tra l’ammanco dovuto al taglio della tassa e i 3 miliardi e 250 milioni stanziati in sostituzione ad essi ci illustra come, al di là delle parole roboanti, vi sia stato l’ennesimo taglio al fondo della sanità per 350 milioni di euro!
Per finire, se vogliamo fare un ulteriore raffronto, possiamo trovare, sempre all’interno del Decreto “Rilancio” uno stanziamento di 3 miliardi (e quindi di poco inferiore ai soldi devoluti alla sanità) in favore di Alitalia, una vera e propria mangiatoia alla quale si sono abbuffati, negli ultimi quindici anni, tutti i volti più noti dell’imprenditoria e della finanza italiana.