Dove va l’America? Trump, verso la sconfitta, prova ad incendiare le polveri

5 novembre 2020

 

 

 

Ieri mattina presto l’elezione di Joe Baiden alla Casa Bianca pareva compromessa, ma già a metà mattinata abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza. Il candidato democratico è passato avanti nei conteggi in Michigan e Wisconsin, come peraltro in Nevada e Arizona. I primi due stati sono stati attribuiri ai democratici mentre negli altri due, oltre a Pennsylvania, Gerorgia e Carolina del Nord, lo spoglio prosegue.

Un record Baiden lo ha già raggiunto, ottenendo il maggior numero di voti mai quantificati da un candidato durante la lunga storia elettorale statunitense. Il merito, in questo caso, più che a lui va però attribuito al presidente in carico, talmente divisivo da aver trasformato la tornata elettorale in un referendum sulla sua gestione presidenziale, oltre chè sulla sua persona, dal carattere spigoloso, ambiguo e contigua alle posizioni dei suprematisti bianchi. Moltissimi americani probabilmente hanno votato Baiden turandosi il naso perché, al di là della sua esperienza politica di lunghissimo corso, egli esprime posizioni moderate e centriste, tanto che, su alcune questioni, è sicuramente più vicino alle rivendicazioni repubblicane che a quelle della sinistra del suo stesso partito.

Sta di fatto che la situazione è tale per cui anche noi, che ci definiamo “di sinistra” senza se e senza ma, ci troviamo a tifare per Joe Baiden.

Il ribaltamento dei primi risultati che parevano dare a Donald Trump una certa sicurezza è dovuto anche all’enorme afflusso di voti postali.

Si tratta di una tipologia di votazione in voga fin dai tempi della Guerra civile americana, quando la si inaugurò per permettere ai soldati di votare, e fino ad ora, a dispetto delle affermazioni di Trump, non è mai stato dimostrato che si sia prestata a brogli nel suo utilizzoi. La campagna elettorale dell’attuale inquilino della Casa Bianca è stata contraddistinta dai tentativi di sabotare il voto postale perché, ha dichiarato csndidamente Trump, “favorisce i democratici”. In effetti questo è ampiamente dimostrato dal fatto che interessa principalmente i grandi centri urbani, normalmente appannaggio del voto democratico, ma anche questo voro è, ovviamente, del tutto legittimo. Questa tendenza è incentivata, quest’anno, dalla paura di infettarsi durante l’attesa nelle code ai seggi.

Trump per questo sta cercando di veicolare il messaggio che solamente i voti espressi direttamente nei seggi siano legittimi e, per avvallarlo, sta provando a interrompere lo spoglio nei seggi degli stati in bilico che si apprestano a scrutare proprio i voti postali, dopo aver rivolto la stessa azione al voto diretto.

 In realtà, quello che si prefigura come un tentativo di scippo elettorale da parte del presidente, non sta decollando  e si riduce, fino ad ora, alla concessione da parte dei giudici che sono chiamati ad esprimersi sulle cause intentate da Trump, di un maggior controllo da parte dei repubblicani sulle operazioni di voto in Pennsylvania. Una situazione che, se si può definire sicuramente intimidatoria, non permette però, come auspicato, il blocco del conteggio dei voti.

Rispetto a questa forzatura, (cosa ben diversa dal riconteggio dei voti, prassi normale in caso di distanze minime tra i candidati e già utilizzato anche dai democratici), pare che gli stessi maggiorenti del partito repubblicano si mantengano abbastanza distaccati, dopo aver anche, in alcuni casi, criticato aspramente Trump per essersi attribuito, nelle ore scorse, la vittoria mentre il conteggio era ancora ampiamente in corso. Il risultato per i repubblicani è in ogni caso davvero positivo, e forse ad alcuni di loro non dispiacerebbe liberarsi di Trump che, lo ricordiamo, rappresenta comunque un corpo estraneo nel partito.

L’attaccamento alla presidenza di Donald Trump non è dovuta semplicemente alla “passione politica” o ad una sana competizione, seppure aspra. Quello che spaventa il presidente è in realtà la possibilità concreta che, una volta persa l’immunità presidenziale, possa ritrovarsi al centro di numerose inchieste giuridiche e congressuali. Non dimentichiamo che l’apparente opulenta ricchezza di Trump nasconde l’opacità delle origini di quello che è effettivamente stato il suo patrimonio, ma anche un debito attuale di 409 milioni di dollari, gran parte dei quali dovrebbero essere restituiti nei prossimi tre anni.

Insomma, potremmo ben dire che la parabola di Trump, “sceso in campo” per salvare le sue aziende, ricorda quella del famoso imprenditore brianzolo sceso nell’agone politico con le stesse motivazioni.

Tutta questa incertezza e le manovre del presidente per invalidare parte dei voti, unitamente alla denuncia di brogli, senza peraltro dimostrarli, sta creando una situazione di alta tensione. Diversi cortei, sia di sostenitori repubblicani che democratici, stanno attraversando molte città degli Stati Uniti. Intimidazioni repubblicane si registrano al di fuori dei seggi in Pennsylvania e Arizona e alcuni arresti sono avvenuti a New York. Per ora niente di eclatante ma se Trump continuasse, come pare intenzionato, a tirare la corda bloccando le operazioni di voto, aizzando nel contempo il suo elettorato, le cose potrebbero precipitare.